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Di Roby51 (pubblicato @ 20:05:11 in Spedizioni di Giacomo)
1991 - Bolivia
Immagine
 
# 1
Alpinismo Extra Europeo


Bolivia 91

Relazione di Giacomo Scaccabarozzi









Non occorre andare molto indietro con la memoria: per festeggiare il suo X anniversario, nel 1991, il GSA di Missaglia, del quale ero vice presidente, decise di offrire ad alcuni soci la possibilità di compiere la loro prima esperienza extraeuropea organizzando una spedizione che potesse conciliare l'aspetto turistico e conoscitivo con quello alpinistico ed esplorativo, senza utilizzare appoggi esterni, ma solo facendo leva sulle scarne basi di nozioni acquisite da libri e racconti.

La scelta cadde sulla Bolivia in quanto, oltre a montagne con quote notevoli, ma dalle difficoltà relative, poteva offrire la possibilità di compiere esperienze umane esclusive in un ambiente naturale tra i più affascinanti del mondo.



"Mesi febbrili di preparativi, poi, come per incanto, mi ritrovo con altri cinque amici dall'altra parte del mondo. È il 1° di agosto, siamo partiti da un giorno e già ci guardiamo in faccia perplessi, storditi. Il salto è stato molto brusco: siamo a 4100 metri di quota, La Paz si stende immensa ai nostri piedi e ci offre una visione sconvolgente. Cercavamo l'avventura e ora ....? È la nostra prima esperienza, e si sente.

Buttiamo alle spalle ogni preoccupazione e ci tuffiamo decisi in questa realtà.

Siamo in Bolivia! Paese di luci, colori, grandi spazi, contrasti affascinanti, ma anche miserevoli. Davanti a noi abbiamo 30 giorni per visitare il Paese e raggiungere alcune sue montagne; cercheremo di viverli e goderli.

Contrariamente a quanto avevamo pensato al primo impatto, La Paz ci diventa subito familiare; abbiamo il tempo per visitarla e per conoscere le sue bellezze e le sue forti contraddizioni. È un mercato a cielo aperto dove ci aggiriamo incuriositi e attratti dai colori e dalla gente. Al puzzo di urina facciamo presto l'abitudine, alla miseria che vi regna, e che colloca questo Stato all'ultimo posto della graduatoria mondiale dei Paesi in via di sviluppo, un po' meno.



Questa città è la capitale più alta del mondo e conta più di un milione di abitanti, che vivono tra i 3600 ed i 4100 metri di quota in un immenso bacino tra polvere, lamiere, eucalipti e moderni palazzi. I quartieri "bene" sono situati sul fondo, dove si respira meglio, mentre le case d'argilla dei poveri indios ammucchiate una sull'altra, lungo il bordo, su fino al margine dell'altopiano. Vederla e rimanerne sconcertati è una cosa sola. Non c'è via che non abbia mercato, e non c'è indio che non abbia qualcosa da vendere; e si vende di tutto e di più, anche quegli oggetti che da noi andrebbero a riempire le discariche: dai topi scuoiati, e pronti per essere bolliti, ai feti di lama, ai giornali vecchi di due giorni, ai sacchetti porta immondizie che la gente utilizza per ben altri scopi. Sui muri le numerose scritte "M.B.L." (Movimiento Boliviano de Liberaçion) ci ricordano che siamo nel Paese che ha cambiato 3 presidenti in 24 ore, che ha avuto 6 colpi di Stato in un anno e ha cambiato 196 presidenti negli ultimi 100 anni, ma dove la miseria della gente è rimasta sempre la stessa da secoli.

Lasciamo La Paz al terzo giorno a bordo della Toyota di Vitaliano (questo è il nome della nostra guida, un indio simpaticissimo); è confortevole per sette persone, ma, dopo 10 ore di strade sterrate e 560 chilometri di polvere, arriviamo al punto di maledirla.

Rimarremo lontani dalla città per 13 giorni; il nostro programma prevede, infatti, la visita ai Salares e alle lagune nel Sud del Paese, e la salita alla montagna più alta, il Sajama.

Sistemiamo nel bagagliaio tutto il materiale comprato a La Paz e 160 litri di benzina. Con la speranza che tutto vada per il meglio in fondo al cuore, ci dirigiamo verso sud attraverso la Puna (la pampas degli altopiani). L'inverno boliviano, la nostra estate, ci regala degli scenari impareggiabili e, nonostante la polvere, siamo galvanizzati al pensiero di quello che ancora ci aspetta.

Arriviamo a Potosí che è ormai buio; siamo a 4100 metri di quota e si sente. Nonostante questo, all'alba, approfittiamo della giornata di sosta per salire al Cerro Rico, a 4830 metri. La jeep fa il suo servizio fino a circa 4700 metri; dopo 20 minuti di fiatone e di vento andino ci fermiamo ad ammirare orizzonti limpidi e sconfinati. Peccato che la cima sia stata sconvolta e deturpata da più di 400 anni di scavi minerari.

Il Cerro Rico è infatti conosciuto come uno dei più grossi giacimenti di argento, zinco, rame e piombo del mondo; di queste enormi ricchezze si accorsero anche gli spagnoli circa 400 anni fa, e ancora oggi c'è gente che vi cerca l'impossibile a costo della vita.

Prima di salire alla vetta, abbiamo fatto visita a una delle miniere aperte quassù, a 4400 metri di quota, dagli spagnoli. Accompagnati da un ragazzino di 18 anni, Wilson, minatore anch'esso fino a non molto tempo fa, mentre ora riesce a campare col lavoro di guida, abbiamo comprato 5 candelotti di dinamite, 2 metri di miccia, una libbra di coca e 40 sigarette di marijuana e ci siamo inoltrati per quasi 2 ore nelle viscere di questo luogo infernale: abbiamo visto le brutali condizioni di lavoro di uomini senza speranza, abbiamo parlato con loro e consegnato in quelle mani segnate dalla fatica tutto quello che avevamo comprato alle bancarelle della città. Un'esperienza che lascerà in noi un segno profondo.

Ripartiamo con quelle desolanti immagini negli occhi e, viaggiando per giorni interi, attraversiamo la parte più suggestiva dell'altopiano; da Uyuni ad Alota, poi giù fino alle lagune, al confine col Cile. Zone desertiche, ma affascinanti; il vento e la polvere ci penetrano nella pelle, il freddo è intenso, tuttavia la poca gente che incontriamo, i fenicotteri rosa, le immense distese di sale e i paesaggi incontaminati ci rendono più sopportabile ogni disagio.

Sulla via del ritorno verso nord incontriamo anche la nostra prima montagna; sarà poco più che un allenamento, ma i 5000 metri del Cerro Caral, un antico vulcano senza neve, ci servono anche per allargare la nostra vista dopo lunghi giorni di calma piatta.

È il 10 di agosto, le gambe faticano a ingranare dopo tanto ozio. Alle 6 del mattino, quando è ancora buio, abbiamo già il pueblo di San Juan alle spalle. La notte stellata lascia presto spazio a un'aurora altrettanto fantastica, e i 10 chilometri semipianeggianti che separano l'abitato dalla base della montagna li bruciamo in poco più di un'ora. Accompagnati da micidiali raffiche di vento che, a tratti, soffiano fino a 140 chilometri all'ora, raggiungiamo la cima in meno di 2 ore. Non c'è male per 1300 metri di dislivello alla prima uscita, anche se lascia un po' di perplessità la costante negativa del vento che, oltre a rendere difficoltosa la salita, prosciuga ogni liquido, inaridendo la gola e rendendo molto difficile la respirazione, oltre che togliere ogni possibilità di sosta. Cosa succederà se dovesse essere così anche oltre i 6000 metri?

Lasciamo la risposta ai giorni successivi e ci godiamo per ora lo spettacolare panorama dei Salares di Uyuni e di Coipasa. L'idea di dover attraversare queste immense distese bianche che brillano in un oceano di sabbia e rocce marroni ci rende euforici. E poi, in lontananza, si staglia il Sajama, la nostra prossima sfacchinata.



È il 12 agosto quando, risolti parecchi contrattempi che ci fanno ripercorrere più volte la stessa pista, arriviamo al piccolo pueblo di Sajama, situato ai piedi del versante occidentale del grande vulcano omonimo. Isolato dalla Cordillera cilena, il Sajama svetta maestoso sulle pianure circostanti ricoperto di ghiacci fino a 5000 metri, e ridesta in noi sogni e timori. È la prima impegnativa salita che ci apprestiamo a fare, e ognuno di noi è percorso da una strana sensazione per come andrà a finire.

Partiamo all'alba dall'estancia Alvarez, a 4300 metri , per raggiungere la morena dove metteremo il nostro primo e unico campo, a 5350 metri di quota. Saliamo con due muli e gli orizzonti liberi nel vento. I 10 giorni di esplorazione ci permettono di compiere un'acclimatazione non del tutto passiva. Siamo un po' provati dopo tanti bivacchi, tante ore di strade scassate e tanti pranzi saltati. Raggiungiamo a fatica il nostro bivacco dove, piazzate le tende, arriva subito a consolarci un tramonto di incantevole bellezza. La cena è misera, il sonno pure; alle 3 del 14 agosto siamo già in cammino. Come colazione ci sono .... i 400 metri del canalone ghiacciato attraverso il quale raggiungiamo la cresta ovest: 50 gradi di pendenza, con tratti a 55 e tratti di roccette. Poi, dopo aver superato ancora canali e roccette, arriviamo ai "penitentes", una sorta di giungla di lame di ghiaccio alte fino a due metri su di un pendio a 40 gradi. Il sole sorge dietro l'Illimani, a 300 chilometri di distanza, ma questa selva, infima e affascinante al tempo stesso, ci fa soffrire; sono le 9 quando ne usciamo, ma dovremo riattraversarla anche al ritorno.... Poi c'è l'interminabile e troppo poco inclinato pendio che conduce sulla vetta, a 6520 metri.

Vi arriviamo stremati dalla fatica e dal vento alle 10.30. Ho il rammarico di trovarmi soltanto con Riccardo e Walter. Per il resto tutto è fantastico: la giornata stupenda permette di spaziare verso orizzonti infiniti, il vento si calma e abbiamo il tempo di osservare la Cordillera Real, dalla quale si staccano per eleganza il Potosí e l'Illimani: lassù, mi dico, dovremo arrivarci tutti. Scendiamo dalla nostra prima "cumbre" oltre i 6000 metri a malincuore. Davanti a noi lo spettacolo indimenticabile di altre montagne e altri luoghi stupendi.



Dopo 13 giorni torniamo a La Paz. La troviamo brulicante e più bella del solito, anche se ormai sappiamo che il suo benessere è solo apparente, poiché l'80% della popolazione vive in estrema indigenza. Ma dopo aver percorso un lungo giro a "8" di 2300 chilometri siamo contenti di essere ritornati ancora qui.

Barbe lunghe di 2 settimane, pelli rinsecchite e polvere dappertutto fanno sobbalzare il portiere dell'Hotel Milton al nostro arrivo. Due settimane senza una doccia, senza uno specchio, senza potersi lavare le mani e ritrovarle pulite due minuti dopo. Finalmente riacquistiamo un aspetto civile.

Basta un giorno di sosta, però, per farci tornare la voglia di rimetterci subito in viaggio; in poche ore raggiungiamo Zongo, a 4700 metri di quota, da dove iniziamo subito la nostra salita all'Huayna Potosí.



Attraversata la diga, ci incamminiamo tutti dietro a Claudio ma sbagliamo subito morena. Dopo circa 90 minuti di ... saette, ritorniamo sul sentiero giusto che ci conduce verso il ghiacciaio che scende dai fianchi sud (il nostro nord) dell'Huayna Potosí. In 3 ore arriviamo, sfiniti come non mai, al campo Argentino, a 5300 metri, dove mettiamo le tende. La vista è magnifica: da una parte, in lontananza, la città di La Paz con El Alto, al centro la mole dell'Illimani e, dall'altra parte, la zona montuosa che degrada rapidamente nella Jungas, verso l'Amazzonia. Alle nostre spalle c'è la bellissima parete sud-est del Pico Sur (o Pico Italia), 6005 metri, cima minore del gruppo. Che sia quella la nostra meta per domani? Abbiamo tutto quanto serve, e forse di più: due piccozze a testa, dieci chiodi da ghiaccio, corde, cordini, ecc. Sulla parete, molto simile a qualcuna delle nostre Alpi (c'è chi dice alla nord della Presanella, o a quella della Cima di Rosso, ma io sostengo che somiglia molto ad una parete vista, forse, solo in sogno), c'è la via "de los Franceses", aperta nel 1974 (750 metri di dislivello dalle tende, quasi 400 di parete con pendenze di 60/65 gradi ed uscita a 75). Trovare una bellezza simile a 6000 metri non sembra vero, ed è colpa sua se la notte è "turbata" da strani sogni.

Il giorno dopo le cose vanno decisamente meglio. Alle 10.30 ci ritroviamo tutti sull'esile cornice della vetta dell'Huayna Potosí, a 6089 metri; con Walter e Riccardo la raggiungo attraverso la parete sognata tutta la notte, mentre gli altri tre amici scelgono l'altrettanto impegnativa e bella via normale per ricongiungersi con noi. È il 18 agosto, essere tutti quassù ci fa sentire le ... campane. I quattro punti cardinali sono ai nostri piedi: a ovest la città di La Paz, dove torneremo già la sera stessa per una cena della quale speriamo di non vergognarci, a nord il lago Titicaca, che ragiungeremo domani per un bagno tonificante, a sud l'Illimani, la principale ragione di vita dei nostri ultimi sei mesi: tenteremo di arrivarci al ritorno dal lago, e a est la Jungas amazzonica, la nostra ultima meta.



Dopo due giorni trascorsi tra le mitiche rovine di Tiwanaco, il magnifico lago Titicaca e l'isola del Sole, dove abbiamo fatto un bagno, ma solo di sole, passiamo un'intera giornata in città; doveva essere un momento di relax, ma, per il continuo correre su e giù per le calli, si rivela più stressante di una giornata di viaggio. Recuperiamo quanto ci serve per affrontare i quattro giorni sull'Illimani e poi tutti a nanna. È l'ultima, rilassante formalità che ci resta da sbrigare!

Il 22 agosto ci rimettiamo dunque di nuovo in viaggio; sono solo quattro ore, ma che ore. Attraversiamo valli e canyon stupendi, zone finalmente ricoperte di vegetazione, con peschi in fiore, fichi d'India, agavi e palme, abbassandoci, per la prima volta da quando siamo in Bolivia, fino a 2500 metri. Arriviamo verso mezzogiorno all'Estancia Una, a 3500 metri di quota, e abbiamo la fortuna di trovare subito un paio di persone che, con due cavalli, ci aiutano a trasportare tutto il materiale ai 4400 metri di Puente Rotto, località stupenda, ricca di pascoli ridenti e corsi d'acqua, che si apre alla nostra vista dopo 3 ore di marcia. Qui piazziamo le tende per il primo dei due campi previsti per la salita alla vetta; l'altro lo raggiungeremo il giorno successivo, sempre aiutati dai portatori, a 5500 metri di quota.

L'imponente mole dell'Illimani domina la vallata ed è ancora più impressionante che vista da lontano. Per una volta, non c'è traccia di vento e non fa neppure tanto freddo.

Si avvicina dunque il momento cruciale di questa vacanza-avventura. Non c'è emozione, c'è invece la consapevolezza, in tutti noi, di aver di fronte una grande montagna con la quale è vietato scherzare, ma anche quella di esserci preparati a dovere.



Alle 8 lasciamo le tende; è tutto un ghiaccio, ma ci scaldiamo subito nel correre dietro ai portatori. Raggiungiamo lo spiazzo morenico in bilico sui due ghiacciai più tormentati della montagna, il Nido de los Condores, a 5500 metri di quota, dopo quattro ore di rincorsa disperata. Che bisogno c'era di correre tanto? Forse per avere tutto il pomeriggio per spadellare e godere il grandioso panorama?

Sì, mi rendo presto conto che ne valeva la pena.

Come da programma all'una suona la sveglia: maledizione, è il giorno dell'Illimani. La luce della luna è fredda, la colazione pure; non ci resta che sfruttare questa luce magica e irreale per la salita. Quando il sole sorge dal versante opposto della montagna, e fa filtrare i suoi caldi fasci di luce che, per pochi, magici istanti, vanno a mischiarsi con quelli più freddi della luna, siamo quasi in vetta.

Sono momenti di indescrivibile suggestione, mai vissuti prima, e che, forse, non proveremo mai più. Momenti che allietano non poco la fatica e le difficoltà di questa salita lungo lo sperone ovest della cima sud dell'Illimani. Una salita che presenta subito un ripido e affilato crestino di neve col quale si giunge in breve a un primo crepaccio, dove occorre esibirsi in una gara di salto in lungo; dopo una serie di aggiramenti ad altri crepacci, con un'altra cresta, questa volta pianeggiante, si arriva ai piedi dei pendii più ripidi. Fin qui, per circa 2 ore, è tutto molto evidente e senza difficoltà.

Poi, proseguendo su questi pendii a 45 gradi e oltre, le idee si confondono un poco a causa dei numerosi crepacci. Il più evidente viene superato solo con l'intuito, e rappresenta il momento chiave dell'ascensione. Si tratta di una grossa fenditura che sbarra il passaggio su di un pendio di oltre 40 gradi; ne seguiamo il bordo, in salita, tenendo con la mano destra la piccozza e con la sinistra l'esile bordo stesso, di ghiaccio vivo, e questo per una quarantina di metri. La crepa, però, si allarga sempre di più, ed il pendio si fa sempre più ripido e più impervio.

Improvvisa, al centro di questa fenditura, un'esile lingua di ghiaccio sembra attraversarla obliquamente, tornando all'indietro; non si vede dove porti ed è staccata dal bordo dove ci troviamo; occorre calarsi al suo interno, salirvi sopra e percorrerla fino al suo termine. Si arriva così dalla parte opposta.

Intuito, fortuna, la pazienza di Riccardo: c'è un po' di tutto questo. Il resto è solo tanta fatica e ... tanta gioia.

Sono le otto quando esco sulla cresta di vetta, a 6450 metri; l'alba mi ha preceduto di poco, Claudio mi segue a tiro da 6 ore. Non riesco a trattenere una lacrima quando mi raggiunge. Arrivano gli altri amici e leggo sul loro volto la stessa emozione e la stessa immensa gioia che sto provando io. Abbandoniamo ogni pudore e ci abbracciamo commossi, liberandoci così di tutta la tensione accumulata. È una bellissima giornata di sole; tanta attesa e tanti sacrifici, forse troppi per raggiungere l'obiettivo, vengono premiati con gli interessi dando luogo a una scena impensata di amicizia e di affetto.

È vero: l'Illimani non può essere tutto nella vita. Anzi ... Per sei mesi, però, ha rappresentato molto, moltissimo per noi. E ne sanno qualcosa i nostri cari, che oggi più che mai sono stati in testa ai nostri pensieri.

La luna piena, l'assenza di vento e un cielo terso hanno permesso di vivere appieno questo giorno fortunato. Io poi ho assaporato la soddisfazione di veder arrivare sulla vetta tutti i miei compagni. A loro, i complimenti più veri per la tenacia dimostrata e per la serietà con cui hanno affrontato l'impegno. A loro, grazie di cuore per aver accettato di vivere, da uomini, questa avventura, condividendo con me fatiche e ideali.



Cara Bolivia, è già ora di ricordi; ci hai accolto subito come dei grandi amici, togliendoci in un istante ogni preoccupazione e ogni paura, offrendoci le tue stravaganze, i tuoi eccessi, i tuoi difetti, e non saranno le cattive notizie sul "tuo" colera a impedirci di avere un buon ricordo di te, a impedirci di rimpiangerti.

Cara Bolivia, assordante di clacson, di musiche, di grandi silenzi, con la tua gente che vorrebbe europeizzarsi senza voler, giustamente, abbandonare le tradizioni, con la tua gente che può vedere di tutto senza però poter avere niente, e vorrebbe chiederti di tutto, ma, per orgoglio, non ti chiede nulla, con le televisioni a colori in misere abitazioni di fango prive di qualsiasi servizio.

Cara Bolivia, Paese dove si sposano le immense distese verdi della selva con quelle aride dell'altopiano per offrire, assieme a vallate fertili e profonde, ogni genere di materie prime a chi non sa come utilizzarle, dove è permesso morire a 12 anni, in miniera o di stenti, mentre la pubblicità invita la popolazione a lavarsi le mani prima di mangiare, e l'acqua non c'è, dove tutte le droghe sono consentite e dove non vi è alcun divieto riguardo ad armi, anche se la gente non sa che farsene, dove la Marina Militare è ricca e potente pur non essendo bagnata dal mare.

Cara Bolivia, Paese dove le imponenti montagne costituiscono una presenza costante nella vita di tutti i giorni, che attraggono ogni anno schiere di alpinisti, ma dove la gente che vi abita, il più delle volte, non ne conosce neppure i nomi. Noi abbiamo imparato a conoscerli. Speriamo di essere anche riusciti a alleviare per qualche istante le sofferenze umane degli indios incontrati durante i nostri spostamenti.

Cara Bolivia, offrici ancora due giorni di follie nelle umide e verdi Jungas, poi fa qualcosa per rendere meno triste il nostro distacco da te; il 30 agosto dobbiamo imbarcarci... l'Italia ci aspetta.

Non hai deluso le nostre aspettative, eri quanto cercavamo per vivere la nostra prima avventura lontana dalle Alpi. Siamo sicuri che, grazie a te, da oggi anche queste nostre montagne italiane, pur familiari e conosciute, sapranno trasmetterci tante altre emozioni".





Componenti della "Spedizione Bolivia '91"

Claudio Ghezzi (1952), di Missaglia,

Vittorio Airoldi (1953), di Oggiono,

Walter Crippa (1958), di Missaglia,

Francesco Ghezzi (1961), di Missaglia,

Riccardo Verderio (1964), di Carugate, e

Giacomo Scaccabarozzi (1951), di Missaglia


http://digilander.libero.it/caivim/extra_bolivia91.htm
Di  roberto  (inviato il 28/11/2005 @ 22:46:06)
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